Con 183 nazioni colpite, 1 milione e 283mila casi conclamati, quasi 67.000 morti e mezza popolazione mondiale sottoposta a quarantena o a regime di mobilità ridotta, si può tranquillamente affermare che il coronavirus ha raggiunto tutti e che non esistono più posti dove ci si possa sentire al sicuro. Esso pertanto non può essere considerato un fenomeno prettamente sanitario ma anche geopolitico in quanto è più che lecito domandarsi come è stato possibile che nel 2020, in un mondo interconnesso e dove le informazioni, i capitali e gli esseri umani stessi viaggiano a velocità supersoniche, non si sia stati capaci di prevedere gli spostamenti e dare una risposta immediata ed efficace in tempi giusti.

Forse perché la forza di questo virus, oltre a quella di mettere a repentaglio le funzioni respiratorie dei soggetti colpiti, è stata quella di sfruttare al massimo le debolezze del mondo che ho poco fa descritto: si è diffuso cioè sfruttandone per l’appunto le peculiarità. Il contagio è stato infatti talmente veloce che non è stato possibile seguirne gli spostamenti e che, con molta probabilità, è giunto tra noi ben prima di quando ne sia stato riconosciuto il primo caso. Non è un caso infatti che praticamente nessuno sia riuscito ad individuare il cosiddetto “Paziente zero”, quello cioè che ha svolto le funzioni di vettore che, da una posizione esterna, ha introdotto il virus in un ambiente sano.

Basti pensare che agli inizi del Novecento, quindi non tanti anni fa, la famigerata pandemia di “Influenza Spagnola” ha impiegato circa due anni per diffondersi nel mondo, mentre al coronavirus sono bastate più o meno due settimane. Questo perché i tempi dei trasferimenti delle persone da un capo all’altro del mondo, sono centinaia di volte inferiori rispetto al periodo di incubazione del virus stesso. Possiamo affermare quindi che la società moderna, anche nota come “Società aperta”, non è stata in grado ne di prevedere, né tantomeno di contenere la diffusione del contagio.

È da non sottovalutare il fatto che chi ha deciso in tempi rapidi di isolarsi (Russia, molti stati del Sudamerica e dell’Europa dell’Est) sia riuscito ad attuare politiche di contenimento piu efficaci rispetto agli Stati del “Vecchio Continente” e degli Stati Uniti, dove le economie sono costruite sui trasferimenti illimitati e veloci e che pertanto necessitano di confini sempre aperti per consentire a tali scambi di poter avvenire e quindi sostenere i rispettivi impianti produttivi ed economici.

Difatti, il primo effetto che si è palesato dopo il cosiddetto “Lockdown”, è stato il crollo delle economie da cui è nata una progressiva richiesta rivolta agli Stati Nazionali di aiuti e sussidi. Richieste legittime, per carità, ma comunque rivolte ad entità indebolite e depotenziate da un sistema predatorio sviluppatosi negli ultimi 30 anni che ha generato Stati deboli e senza portafogli, incatenati a trattati e regolamenti che hanno inibito la funzione sociale dello Stato “Buon padre di famiglia”.

Cosa fare quindi per poter creare i presupposti per far sì che si possa costruire una società in grado di poter dare una risposta valida ed efficace ad una qualsiasi emergenza che sia di portata mondiale, in un contesto internazionale dominato dalle interconnessioni veloci? Innanzitutto restituendo allo Stato la sua funzione sociale. Questo significa consentire allo Stato di effettuare investimenti pubblici, di poter in un certo qual modo controllare di più il mercato, consentendogli di essere anche parte attiva di esso. Bisogna in poche parole permettere ai singoli Stati di fare spesa sociale, archiviando il pensiero globalista che ha costruito in pochi anni delle entità sovranazionali che hanno dapprima creato grandi ingiustizie sociali, per poi plasmare Stati spogli di poteri e totalmente incapaci di rispondere a situazioni di emergenza. 

Guardare ad una società alternativa a quella attuale, più sicura e soprattutto più solidale, impone una ricetta dura o a dir poco rivoluzionaria. Significa introdurre all’interno di una società come la nostra elementi che non sono per nulla contemplati, anzi, che sono contrapposti all’attuale pensiero dominante che ha plasmato nazioni e popoli: limitare la circolazione dei capitali e di tutti quei prodotti finanziari che avvelenano l’economia reale, adoperarsi affinché si creino i presupposti per lavorare a due passi da casa; investire come non mai sulla piccola e media impresa, con particolare attenzione a quelle che valorizzano il territorio in cui operano; investire pesantemente sul trasporto pubblico ecosostenibile, in modo da far sì che il cittadino si possa muovere sul territorio a basso costo ed a basso impatto ambientale; sostenere tutti gli sforzi dei cittadini per far sì che essi possano gettare radici in un punto fisso, partendo dal diritto alla casa. Tutti valori incompatibili con la visione di una società liquida e veloce come quella attuale basata sulla caccia al denaro, ovunque esso si trovi.

Fin da oggi quindi, quando ancora non si intravede la fine di questa emergenza, ognuno di noi è chiamato a progettare nel proprio piccolo una visione del mondo post-liberista in cui gli Stati Nazionali, nel nostro caso l’Italia, si riapproprino della centralità, della crucialità e dell’importanza che un tempo avevano ed a cui hanno dovuto rinunciare, insieme con la cessione di grandi fette della loro sovranità.